[ Avarizia e avari d'oggi ]

(Note ai margini di un soggetto pittorico)

Fausto Petrella



Avarizia


Avarizia e Avaro sono parole gravide di grandi tradizioni. Come è accaduto per molti altri vocaboli illustri, dobbiamo tuttavia riconoscere che nel corso del Novecento, queste due parole si sono sbiadite, perdendo i forti contorni concettuali ed emotivi e le consuetudini figurative che le hanno accompagnate nel corso dei secoli. Proporle come tema dalle molteplici risonanze alla riflessione di un artista d'oggi- come ha fatto il Comune di Lodi con il pittore Gabriele Albanesi, che ha accolto e accettato la provocazione di questo "motivo" - è una vera sfida all'invenzione e al pensiero.
Lungo quali direttrici, in un'epoca come la nostra, può svilupparsi un tema di così antiche tradizioni etiche, religiose, narrative, iconologiche e mitologiche?
Per sapere cosa l'avarizia sia diventata, in quale modo oggi la pensiamo, chiunque può avviare un proprio gioco immaginativo e confrontarsi da un lato con la tradizione, dall'altro con le luminose e accattivanti proposte figurative di Albanesi.
Per affrontare un tema così sovra-saturo e insieme indeterminato, l'artista ha dovuto attivare un personale gioco associativo e inventivo, che infine si è realizzato nelle 22 opere ora in mostra. Gabriele Albanesi non è nuovo ad imprese analoghe, perché si è recentemente fatto stimolare da Hieronymus Bosch, producendo una straordinaria serie di variazioni sull'opera di questo affascinante ed enigmatico visionario.

Il problema della rappresentazione odierna dell'avarizia nasce dal fatto che da molti anni si è perduta l'immediatezza delle connessioni assicurate appunto da una secolare tradizione culturale, che poteva rendere riconoscibile, intuibile per molti, godibile e insieme necessaria e, per così dire, ben situabile, l'allegoria dei vizi e delle virtù, o la rappresentazione di un tipo umano come l'avaro o il taccagno. Questi due "caratteri", che hanno parecchi tratti in comune, Teofrasto di Ereso, nel IV secolo a. C, li ha distinti con precisione in una descrizione psicologica e comportamentale ancora oggi di grande pregnanza.
Già la coppia avaro - avarizia apre prospettive di discorso sensibilmente diverse fra loro, che si inseguono e si intrecciano sino dall'antichità. Noi tutti conosciamo l'Avaro: qualche suo tratto è in qualche misura presente in ciascuno. Ma se i tratti si concentrano e si esasperano, ci troviamo di fronte all' Avaro-personaggio della letteratura e del teatro di tutti i tempi: un carattere tipico e ben riconoscibile, pur nell'ambiguità e nella varietà, delle sue molte sfaccettature, delle sue estrinsecazioni comportamentali e psicologiche. "Di tutti i tempi", perché la rappresentazione dell'Avaro, già presente nella mitologia e nel pensiero dei greci, percorre la letteratura e il teatro europeo sino alle soglie del Novecento, per poi sparire come soggetto artistico, mitico-letterario e religioso.
Non saprei se l'Avaro-personaggio sia altrettanto tipizzato in altri luoghi, diversi e remoti rispetto alla nostra cultura, che ha collocato l'avarizia tra i peccati capitali e tra i vizi da rappresentare, e l'avaro tra i tipi da condannare e stigmatizzare negativamente. Da collocare all'inferno e al purgatorio, come fa Dante nella Divina commedia, con una determinazione chiarificatrice, la cui concezione influenzerà tanti "giudizi universali". Quegli avari, contrapposti ai prodighi - "cherchi, papi e cardinali" - condannati in schiera "a voltar pesi per forza di poppa", emettendo grandi urli (nell’Inferno, VII, 25-26). Degli avari di tutti i tempi, reali o immaginari, Dante fornisce un elenco esemplare nel Purgatorio (XX), facendolo precedere da una invettiva contro la lupa -cupidigia: "Maledetta sie tu, antica lupa, che più di tutte l'altre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa!".
In epoca moderna, lontano da una condanna teologica, troviamo l'avaro, sulle scene del teatro o nel romanzo, abitare in genere nella città, rappresentato come personaggio ora comico o grottesco, ora decisamente tragico, con connotati sadici e malvagi; ma in ogni caso se ne condanna sempre lo sfrenato egoismo e la bramosia coatta. Per inciso: avaro viene dal latino aveo, avere. Bramare intensamente, da cui avidus.
Parlare di avaro o di avarizia non è tuttavia la medesima cosa. Conosciamo decine di avari-personaggi di romanzi e del teatro, alcuni dei quali divenuti famosi. Pensiamo, tanto per ricordarne alcuni, a Volpone di Ben Jonson, al complesso Shylock del Mercante di Venezia, all'Arpagone di Molière, ma anche allo Scroogle della Notte di Natale di Dickens o al Mastro Don Gesualdo del Verga. L'estrema propaggine dell'Avaro, macchiettistica e stereotipa, ma di grande notorietà, resta il personaggio delle strip di Walt Disney Paperon de' Paperoni, l'amato Zio Paperone (Scrooge McDuck o Uncle Scrooge - creato da Cari Barks nel 1952).
L'avarizia è invece una proprietà che si stacca dall'avaro e che può essere trattata di per sé: una costellazione psico-morale isolata, che per realizzarsi ha bisogno di incarnarsi nella varietà degli avari, ma che nella sua astrazione viene provvista di una sorta di autonomia concettuale.
Anche l'incorporea avarizia ha avuto la sua personificazione mitica. Inevitabile ricordare l’avaritia della summa iconologia di Cesare Ripa e i tratti che essa raccoglie di un' antica rete di specifici attributi. Ripa ci propone l'immagine di una "donna vecchia pallida & magra", in affanno e malinconica, dal corpo grande e idropico, incrociata con quella di un lupo magrissimo, che connotava anche in Dante l'insaziabile cupidigia dell'avaro, una fame spostata dal cibo all'oro e alla ricchezza, alla quale allude la borsa che la donna rinserra ben stretta nella destra. Mentre la mano di sinistra appoggia su un ventre gonfio e dolorante. Quando Giotto dipinge i vizi capitali e le virtù nella Cappella degli Scrovegni, sostituirà all'Avarizia l'Invidia, contrapponendola alla Carità. L'Invidia di Giotto partecipa tuttavia dell'Avarizia, includendola e aggravandone l'immagine canonica: si tratta anche qui di una vecchia che tiene la borsa nella sinistra e che ha la destra in posizione protesa e afferrante. E' tuttavia una vecchia con aspetti bestiali: ha grandi orecchie animali e corna, e dalla sua bocca esce un serpente che le si rivolge contro. E' infine divorata da un bruciante fuoco inestinguibile.
L'allegoria trova il suo posto sistematico nella spazializzazione ordinatrice della Cappella padovana, che propone con nitidezza ai fedeli il suo ordine morale, con una netta partizione dì Bene e Male, dove Vizi e Virtù sono distinti, denominati, personificati e giustapposti in contrasto.
Un discorso sull'Avarizia ancora più articolato dell'allegoria di Giotto è la Morte dell'avaro di Bosch alla National Gallery of Arts di Washington. La prosopopea tradizionale si distende qui in una narrazione più complessa, dove l'immancabile borsa è sin all'ultimo porta all'avaro moribondo da una figura demoniaca, anche quando la Morte è ormai pronta a trafiggerlo. La passione del possesso, personificata proiettivamente dal demone tentatore, sta dalla stessa parte della Morte.
Tutta la partitura dell'opera indica come l'accumulazione dei beni sia il Male, un aspetto che anche il genere della Vanitas ribadirà sistematicamente nei secoli successivi, raffigurando emblematicamente accostati i beni materiali più diversi, contrassegnandoli con vari segni della finitudine temporale loro e dell'uomo stesso, su cui grava l'immanenza della Morte.
Verso la fine dell'Ottocento l'allegorizzazione dei vizi e delle virtù prenderà nuove pieghe e l'antica iconografia subirà un sovvertimento radicale. Per molti decenni del Novecento è stato il Capitale a essere il peccato per eccellenza, più ancora della lussuria, e il capitalista apparirà a molti come il prototipo dell'avaro. Ma la tendenza degli uomini all'ontologizzazione del Male - secondo l'espressione di Sartre - ha anche prodotto la personificazione dell'Avaro nell'Ebreo, facendo precipitare così l'Avarizia in quel delirio europeo del secolo passato, che mostra quali rischi micidiali può contenere il mito e la semplificazione allegorica che comporta, quando interi gruppi sociali o persone collettive vengono trasformati in cose da manipolare, reificati e trasformati in oggetti da eliminare.
La feticizzazione pervasiva del possesso e dell'avere, l'idolizzazione del denaro e della merce, l'estremizzazione della coppia consumare -conservare, ha successivamente dilatato l'avarizia a categoria a tale punto dispersa nella quotidianità occidentale, da sottrarla alla dimensione del vizio e del peccato. L'avarizia, staccata dall'avaro, dal suo essere un vizio capitale, ha investito il capitale stesso, le forme della sua produzione e del suo consumo, per annullarsi infine nei comportamenti accumulativi e dissipativi delle società opulente, volti a negare la penuria e le angosce relative. Queste restano tuttavia sotto pelle, sempre attivabili in tutti da qualsiasi minaccia di "crisi" e di carenza. L'antica iconologia dell'avarizia si è capovolta nella iconografia postmoderna della pubblicità, nella quale si sono trasposti, trasformandosi e sovvertendosi, gli antichi emblemi dei vizi e delle passioni, oggi provvisti di un segno emotivo ed etico spesso del tutto opposto. Ogni allusione alla morte è qui vietata, e, quando appare, serve solo per far vendere assicurazioni, per invitare alla guida prudente e promuovere il carpe diem consumistico.
Credo che le radici antropologiche dell'avarizia siano saldamente iscritte nell'ominazione stessa, nel rapporto dell'uomo, animale originariamente inetto come nessun altro, con il bisogno materiale, la penuria dei beni, la sopravvivenza e la sicurezza. Sono queste caratteristiche della nostra specie a fornire all'avarizia l'impronta di un'universale ubiquità, pur nella varietà delle configurazioni culturali, locali e individuali delle passioni e della loro negazione euforica nella modernità e nella post­modernità del cosiddetto "capitalismo avanzato".
Parallelamente a tutto questo, si è sviluppato dal secolo scorso un altro grande fenomeno occidentale. Il pensiero psicologico e psicopatologico del Novecento si è impadronito dei termini illustri dell'etica teologico-religiosa, con la relativa iconografia, e li ha elaborati lungo direttrici scientifiche del tutto nuove. Questa operazione, che ha investito anche l'Avarizia, è stata soprattutto a carico del pensiero psicoanalitico. Inedite proposte psicologiche penetrano nella sfera del comune sentire, anche religioso, e forniscono nuovi termini ai giochi linguistici della moralità spicciola presente nei discorsi quotidiani.
Sigmund Freud, con particolare chiarezza in un breve scritto del 1908: "Carattere ed erotismo anale", ipotizza molte cose illuminanti sulle radici infantili dell'avarizia, in varie direzioni, che subiranno importanti conferme e sviluppi successivi. La clinica psicoanalitica delle nevrosi mostra a Freud la ricorrenza in certe persone di tre tratti del carattere che sono spesso associati tra loro: una tendenza esagerata all'ordine e alla pulizia; una parsimoniosità che può configurarsi come avarizia; e un'ostinazione che può arrivare alla testardaggine. Questa ricorrenza viene correlata allo sviluppo dell'erotismo anale nel piccolo bambino, generatore di una fase sadico-anale fisiologica, che si innesta sulla fase orale che la precede. Tutto ciò è ben noto da una divulgazione che ha spesso semplificato e banalizzato l'estesa rete di connessioni e le vicissitudini pulsionali e fantasmatiche sottese a una passione centrale come l'avarizia. Intanto è essenziale l'equazione simbolica feci=dono=denaro. Ma ancora più rilevante è comprendere che l'intiero mondo degli oggetti e della loro costituzione materiale, distinta e infine separata dal soggetto, è intrinsecamente connesso con le vicende del rapporto del bambino sia col seno materno, sia con i propri escrementi, in un intreccio esperienziale che è insieme corporeo e relazionale. Trattenere o espellere, formare l'oggetto o formulare un pensiero definito e scambiarlo, creare qualcosa e autonomizzare e separare da sé la cosa creata, l'afferrare l'oggetto e trattenerlo presso di sé: ecco una serie di processi che sono implicati con la costellazione anale dell'infanzia, che impronta di sé gli innumerevoli altri momenti psicofisiologici in gioco. L'avarizia rappresenta il lato patologico e perverso di questi processi. L'accumulazione coatta di beni, il collezionismo pedante di qualsiasi cosa, il blocco della generosità verso il simile, l'atteggiamento - proprio del cinico - di conoscere delle cose il prezzo ma non il valore (secondo la formula celebre di Oscar Wilde) o, al contrario, l‘inesplicabile valorizzazione del rifiuto o dell'escremento, che la psicopatologia mostra nelle forme più contraddittorie ed estreme: tutto questo è finalmente apparso come grande difesa dalle paure della specie, dal rischio di cadere nell'impotenza e nella dipendenza dai bisogni più elementari. Il controllo patologico che l'ossessivo cerca di attuare nei confronti del mondo oggettuale mette in gioco il corpo erogeno, ma in funzione di momenti che mirano ad ottenere una stabilità e un ordine del mondo non più garantito né dai genitori, né dagli uomini e dalle loro istituzioni, animando la dialettica tra Eros e distruttività dalla quale siamo circondati e che tende a operare in qualche misura anche nel segreto di ciascuno. Le condotte dell'avaro odierno, figura non più riconosciuta, ma dispersa e ubiquitaria, ne sono una manifestazione specifica, ravvisabile in filigrana soprattutto nel suo contrario, cioè nella dissipazione consumistica.
Se ci chiediamo cosa può significare oggi mettere in immagine l'avarizia, la serie di opere di Albanesi sono certamente una risposta immaginativa generosa, ben caratterizzata e ricca di risonanze profonde con le coordinate generali che ho cercato di indicare molto sinteticamente.
Le opere in mostra hanno una caratterizzazione costante entro la varietà delle proposte. Penso sia utile descrivere la geografia complessiva dell'arcipelago proposto, anziché la singola opera nella sua autonoma fisionomia, L'occasione della mostra permette di costruire il testo unitario dell'avarizia nel discorso pittorico di Albanesi.
Ci troviamo entro una drammaturgia stabile, che va colta intanto nel gioco tra sfondo e figura. Lo sfondo è quasi sempre chiaro e accogliente, un cielo ora bianco, ora azzurro e limpido, caldo e "veneziano", che suscita piacere e confidenza. Ma sotto ed entro quel cielo inizia un dramma di formazione germinativo e dall'esito incerto, all'insegna di una radicale ma contenuta conflittualità: una contesa tra la forma e un informe, dal colore più scuro, fatto di bruni di marroncini di rossi. Un amalgama indistinto cerca faticosamente la sua forma, entro una scissione tra cielo e terra ora netta, ora con qualche contaminazione dello sfondo celeste. Tutto il processo è a rischio, e trasmette tensione. Dentro la concrezione informe si definisce per tratti qualche figura, ora netta, ora ambigua, che è riuscita a sottrarsi a un impasto informale dai colori caldi e antichi. Tra le figure così generate troviamo qualche perla grigia, qualche "seme" tondo e germinale, e altro ancora; ma l'artista si è ben guardato dal connotare con precisione gli sviluppi morfologici di questa matrice totipotente e indeterminata.
Albanesi è ben consapevole di connettersi alla tradizione degli Emblemata e dei reperti anomali che venivano mostrati nelle Wunderkammem, luoghi della raccolta e dell'isolamento dell'anomalo, eleganti concentrazioni di stranezze che suscitavano perturbata meraviglia e quindi dovevano stare appartate e come recluse, ossimori ben distinti dal mondo delle forme certe e stabilizzate dai canoni linguistici, espressivi e figurativi vigenti, circolanti e ben consolidati.
I dipinti di Albanesi introducono lo spettatore nella fucina delle trasformazioni, nelle quali è in corso il lavoro eccitante della genesi del mondo delle forme. L'Artista accentua questo aspetto processuale, mettendolo in contrasto con le figure emblematiche di un ordinamento riuscito. Compaiono così la formica, la mantide religiosa, i sassi e gli erbari appena allusi, o il reperto archeologico formato di un'antica effigie umana, rovinata dal tempo. Si tratta di forme riconoscibili, perfettamente e minuziosamente realistiche, e nello stesso tempo connesse associativamente o simbolicamente con l'avarizia.
La formica ritratta con precisione può sorprendere come simbolo dell'avarizia. Siamo abituati a identificarla con la laboriosità paziente dell'operaio, con la subordinazione al sistema sociale del formicaio. La formica seria e lavoratrice, che si prepara ad affrontare l'inverno, contrapposta alla cicala canterina e sprovveduta di La Fontaine. La formica di Albanesi non è quella industriosa di La Fontaine e delle tradizioni popolari di tutto il mondo, ma quella, singolarmente malvagia di una favola di Esopo.La formica esopica fu un uomo cattivo, che rubava i frutti del lavoro altrui, trasformato dall'ira sdegnata di Zeus in formica, che anche da animale continua le cattiva abitudini dell'uomo.
Quanto alla mantide religiosa, ho voluto interrogare l'artista sul riferimento davvero insolito all'avarizia di quest'insetto. E ho appreso che la mantide religiosa fa parte da sempre delle sue esperienze, perché molto presente nelle campagne del suo paese d'origine, oggetto di attrazione-repulsione infantile per le sue grandi dimensioni e per la sua forma particolarissima. Più di altri insetti, la mantide si presta a commistioni antropomorfe e a proiezioni di vario genere: la sua corporatura è allusiva di forme umane e l'atteggiamento orante o profetante (d'onde il nome, che farebbe riferimento alla mantica antica), contrasta col suo comportamento predatorio e con le note cattive abitudini erotico-alimentari della femmina. Come pochi altri, quest'insetto assomiglia a una persona e partecipa delle ambiguità del mondo morale della nostra specie. Tutto ciò autorizza la figura dell'avaro - mantide di Albanesi, ritratto in piena azione metamorfica e metaforica, a riproporre le incerte forme di una inquietante commistione in atto.
L'Arpia, a cui è dedicato un ritratto ovale, fa parte ufficiale del canone iconologico dell'avarizia, col suo aspetto mostruoso e gli artigli da rapace. Non così lo Spaventapasseri, "doppio" inanimato che serve a preservare la proprietà, delegato a rappresentare una componente non trascurabile dell'avaro, che teme l'avidità altrui e non s'accorge della propria.
Moti come questi sono ben presenti nel collezionismo Me cose più varie, che determina il fenomeno dell'arte come bene rifugio e in cui si mobilita la tendenza conservatrice e raccoglitrice dell'uomo, contro le angosce depressive e persecutorie sempre in agguato. Un momento dove l'avarizia rivela la sua connessione con le paure più primitive, e non soltanto l'erotizzazione feticistica che è più facile riconoscere operante nelle tendenza ad accumulare gli oggetti più diversi.
L'avarizia archeologica cui Albanesi fa riferimento corrisponde all'attegiamento di conservare per sé quei reperti che l'istanza esplorativa nostalgica spinge a reperire nel passato sepolto o nelle profondità segrete di sé. Atteggiamento antitetico alla generosità dell'artista, che fa dono delle proprie fatiche e della propria ricerca estrattiva, finalizzata alla ricreazione del mondo e alla condivisione. Albanesi potrebbe condividere senz'altro il rifiuto dell'archeologia delle avanguardie artistiche del secolo passato, in particolare enunciato nel Manifesto della pittura futurista.
Cosa vorrà dire l'idea di Albanesi di rappresentare la Casa dell'avaro come un incrocio tra una Torre di Babele, di chiara reminiscenza bruegeliana, e il cono del Purgatorio dantesco? Questa contaminazione sintetizza in una figurazione onirica e sapiente una quantità di pensieri sull'estensione a noi contemporanea dell'avarizia, indicata attraverso un'antica simbologia che la condensazione riporta a nuova vita.
Mi sembra inevitabile che, in carenza di un preciso paradigma iconografico, gli Emblemata di Albanesi assumano anche aspetti idiosincrasici, elementi di un discorso anche molto intimo, che viene proposto alle risonanze dello spettatore, che si proietta in esso secondo direttrici immaginative a loro volta personali. Ma la figurazione dell'artista le mette in risonanza attraverso una mobilitazione linguistica ed espressiva felicemente inventiva e insieme colta e misurata. Una proposta di miti dapprima sorgivi e rampollanti, e solo dopo lungamente lavorati e disciplinati.
Così si sviluppa il processo creativo di Albanesi. Certo più in attesa di una risonanza partecipe, che di un'interpretazione ab esteriore, che non desidero esasperare, perché saturerebbe indebitamente il campo di possibilità offerto da immagini che a loro modo rifiutano una tradizione iconologia delle passioni, che non esiste più, e tuttavia si rifanno consapevolmente ad essa.
Le proposte mitologiche e narrative devono prima suscitare un'emozione, "parlare" a chi sappia e voglia ascoltare. Allora è bene dimenticare queste note, e, se si vorrà tornarvi sopra, è meglio farlo solo dopo un risonante incontro personale con le immagini accattivanti, ma profondamente inquietanti, di quest'avarizia d'oggi.

Nota bibliografica
Si limitano le indicazioni all'essenziale. Lo scritto di S. Freud (1908) "Carattere ed erotismo anale" si trova nelle Opere di Sigmund Freud, vol. 5, p. 401, Bollati Boringhieri, Torino. Una nota editoriale premessa all'articolo consente di ricostruire i successivi percorsi del tema nell'opera freudiana. Circa gli sviluppi specificamente interessanti l'avarizia, sono, importanti gli scritti di M, Klein Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti 1921-1858, Bollati Boringhieri, Torino 1978; e Invidia e gratitudine (1957), Martinelli, Firenze 1969. Vedi anche B. Grunberger (1971) // Narcisismo, Einaudi, Torino, 1998 e in particolare i capitoli "Studio sulla relazione d'oggetto anale" e "II tesoro del bambino e l'evitamento dell'Edipo". Infine, per le condotte accumulative vedi il mio "La tendenza ad accumulare oggetti nei pazienti istituzionalizzati", in Turbamenti affettivi e alterazioni dell'esperienza, Raffaello Cortina, Milano 1993.
La formica di Esopo si trova in Esopo, Favole, Mondatori, Milano 1996, p. 249. L'Avaritia del Ripa è tratta da C. Ripa (1603) Iconologia, Tea, Milano 1992.
Sulle Wunderkammemsll collezionismo vedi A. Lugli Naturalia et Mirabilia. Il collezionismo enciclopedico nelle Wunderkammern d'Europa, Mazzotta, Milano 2005.
Sull'archeologia vedi F. Petrella, II modello freudiano, in Trattato di psicoanalisi, a cura di A. Semi, voi. 1, Raffaello Cortina, Milano 1988; e L'archeologia analitica nell'ultimo Freud. In Rivista di psicoana/isi, 36,4,957,1990.
Sull'antisemitismo come ontologia del male vedi J.-P. Sartre, L'antisemitismo, Edizioni di Comunità, Milano 1960.


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